ETNICO IN PASSERELLA • IERI & OGGI • LA MODA CHE ARRIVA DA MOLTO LONTANO
L’etnico, almeno in passerella, non fa paura. La moda si fa portavoce di un messaggio che guarda a culture e costumi diversi, dai quali trae ispirazione.
DI GIORGIO RE
[tratto da www.style.corriere.it / Novembre 2017]
Lo si è già affermato in queste pagine: la moda, per continuare ad avere un senso nella nostra vita, ha necessità di guardare avanti, intuendo cosa occorrerà domani a uomini e donne perché l’abito sia un oggetto d’uso, consono a dinamiche e stili di vita contemporanei. Ma, esattamente per le medesime ragioni, deve anche guardare indietro e, soprattutto, lontano, facendo propri costumi, fogge, colori, decori, particolarità estranei allo stile dell’Occidente. La moda sa essere intuitiva e riflessiva mostrando un’intelligenza aperta e tollerante. È un segno iscritto nel dna dello stile. Chiariamo le cose e eliminiamo – per sempre? – un equivoco. La via dell’etnico intrapresa dal vestire occidentale non comincia con la sbornia collettiva della presunta rivolta anti-borghese di fine anni Sessanta. Allora i giovani dei Paesi più avanzati sciamavano a frotte verso India e Nepal seguendo l’esempio degli influencer del tempo alla ricerca di una dimensione spirituale differente dal pragmatismo del Primo mondo, già massificato e omologato.
Semmai, in questa fase l’etnico diventa sì fenomeno generalizzato ma di costume. In verità l’interesse verso «ciò che è altro da noi» si accende in contemporanea all’apertura della via della seta tracciata da Marco Polo. Prosegue con le Crociate, con le conquiste, il colonialismo e le scoperte geografiche. I confini cadono o, almeno, è possibile valicarli. Intendiamoci, questa globalizzazione ante litteram non è un’operazione tutta rose e fiori. Al contrario, è uno scontro tra civiltà, in cui si contrappongono una parte forte e vincente e una debole e perdente. Se vogliamo essere ancora più chiari, forse l’unico «apripista» perbene è proprio Marco Polo che si limita a portare a Venezia sete e spezie inaugurando una via commerciale che tale è e tale resta. Con le Crociate la situazione già sfugge di mano. Anche i guerrieri restano incantati da damaschi e broccati, ma non esitano a passare a fil di spada gli abitanti di ogni città conquistata. In sintesi: saccheggiano e uccidono.
Lo stesso vale per i conquistadores in America Latina: cancellano civiltà appropriandosi di tonnellate d’oro che finiscono nelle grandi pale d’altare delle cattedrali spagnole, ma anche sugli abiti della nobleza feudale, altera e nullafacente, insieme a piumaggi di animali esotici e colori che incantano l’Europa intera. Non meritano certo un voto migliore i britannici: dall’Africa prendono materie prime, pietre e metalli preziosi che, insieme alle sete indiane, diventano il lusso moderno. Infine, il millenario Impero cinese viene ridotto allo stato di colonia per essere depredato delle sue giade, lacche e manufatti straordinari, che nessun artigiano londinese sarebbe mai capace di realizzare.
La passione per l’etnico è tutt’altro che adornata di scelte e azioni che all’Occidente fanno onore. Questo è. Indietro non si torna. Non possiamo certo incolpare i giovani hippy che quattro o cinque decenni fa si contendevano bluse e kaftani indiani, maglie andine, burnus maghrebini, mantelli africani. Ignorando, in buona o in male fede, ciò che è stato, essi vedevano in questi indumenti il mezzo per combattere il sistema che, come un paradosso, non è che l’evoluzione dello stesso, colpevole di crimini scellerati. Ha senso però chiudere con una considerazione positiva. L’etnico, superato l’effetto copia e incolla degli anni Novanta che ricalcava in maniera scolastica lo stile figli dei fiori, è esente dalla rinnovata suddivisione in civiltà che si contrappongono con accanimento tra loro.
Auguriamoci che continui a essere così e rendiamogliene atto.